Scena 13

Il docente di recitazione ha fatto salire tutta la classe di sceneggiatura sul palco e l’ha divisa in due file separate. Poi è salito anche lui. Con un grosso bastone di legno in mano.

Torno a casa verso le tre del pomeriggio e, come al solito, l’appartamento è un disastro. Polvere, sporcizia, disordine, puzza. Lo avevo tirato a lucido non più di tre giorni fa, ma è di nuovo tutto da rifare. In salotto poi, sembra che sia passato un tifone. Anzi due. E con un nome ben preciso: Mino e Piero, i miei due coinquilini universitari fancazzisti.

All’inizio la classe di sceneggiatura si è quasi spaventata, anche perchè il docente di recitazione al momento è impegnato in uno spettacolo teatrale tratto da Shining. E lui fa Jack Nicholson.

Mino e Piero stanno giocando alla Playstation. Un gioco di guerra. Hanno avuto la brillante idea di collegare la televisione allo stereo, così il rumore è talmente forte che sembra di stare nel bel mezzo di un bombardamento aereo. Come se non bastasse, la nostra vicina di casa sta sbattendo lo scopettone sul muro per farli smettere. Naturalmente Mino e Piero non la sentono, o fanno finta di non sentirla.

Voglio dire, si è rasato la testa e si è fatto crescere una barbaccia ispida da psicopatico, e con quel bastone in mano ha un aspetto a dir poco inquietante. E poi ha uno sguardo allucinato che non promette nulla di buono. Merda, mi sa che ha preso un po’ troppo sul serio tutta quella roba sul metodo Stanislavskij.

D’un tratto Mino scatta in piedi e, tenendosi lo stomaco con le mani, schizza in bagno alla velocità della luce. Piero spegne la play e la vicina di casa smette di colpire la parete. Silenzio, finalmente. Chiedo a Piero cos’è successo a Mino.

Sta passando in mezzo a noi e gioca col bastone, usandolo a volte come una mazza da baseball, a volte come spada. Adesso, più che il Jack Nicholson di Shining, sembra l’istruttore di Full Metal Jacket. Con voce alta e squillante ci dice che meritiamo una punizione.

Piero mi spiega che Mino è appena tornato da un viaggio in Marocco. Io allora la butto sul ridere e ipotizzo che magari ha fatto indigestione di kebab. Piero non ride e mi spiega che Mino, in Marocco, ha ingoiato mezzo chilo di hascisc in ovuletti da dieci grammi l’uno.

La punizione ce la meritiamo perchè ha letto i nostri testi e gli hanno fatto schifo. Ci aveva chiesto delle piccole scene che avessero come tema le problematiche giovanili, ma tutti gli hanno proposto dei dialoghi copiati da film tipo “Notte prima degli esami”, “Tre metri sopra il cielo” e “Scusa ma ti chiamo amore”.

Io sgrano gli occhi e dico: “Cazzo, ma è spaccio internazionale”. Piero non mi calcola minimamente e aggiunge che Mino, per essere sicuro di non farsi beccare, prima di prendere l’aereo ha ingollato almeno una decina di pillole contro la stipsi. Ma adesso, dopo tre giorni in cui non è riuscito ad andare in bagno, ha preso una dose da cavallo di lassativo.

Proprio quando siamo sul punto di fuggire da quel pazzo psicopatico, il docente ci spiega qual’è la nostra punizione: dobbiamo lanciarci quel bastone a vicenda e, quando ce lo abbiamo in mano, dobbiamo urlare queste parole: “Devo sentire quello che scrivo, devo scrivere quello che sento”.

Mino riemerge dal bagno. È pallido e con delle profonde occhiaie blu. Sorride. Con la mano destra regge una busta piena di ovuletti marroni, con la sinistra fa il segno della vittoria. Piero gli chiede se deve chiamare “i ragazzi”. Mino gli risponde che non c’è solo il lavoro nella vita. Piero annuisce e se ne va in camera sua. Mino comincia a rullare una canna.

Ci guardiamo circospetti. Ma poi, dal principio piano piano, infine sempre con maggior enfasi, cominciamo a lanciarci quel bastone e a urlare quelle frasi.

Piero ritorna in salotto. Si capisce che è lui solo perchè ha gli stessi vestiti, ma in realtà, sotto quella maschera antigas, potrebbe esserci chiunque.

Gli aspiranti sceneggiatori hanno abbandonato ogni freno inibitore e gridano quegli slogan con tanta di quella convinzione che sembra di essere in un congresso di Scientology. Il bastone viene lanciato a mo’ di giavellotto ed è sempre più difficile prenderlo al volo. Il docente di sceneggiatura sta urlando a pieni polmoni per incitare ancora di più i suoi studenti.

Chiedo a Piero cosa ci fa con quella maschera antigas addosso. Lui mi spiega che sabato sera è stato fermato dai vigili e, naturalmente, era sconvolto (“Cazzo, era sabato sera, vaffanculo”). Inutile aggiungere che gli hanno ritirato la patente. Adesso, per evitare di finire in grane ancora maggiori, deve dimostrare di essere pulito alle prossime analisi. Per tale ragione ha iniziato a fare attività sportiva la mattina (cioè a mezzogiorno), a bere solo spremute e tisane e a nutrirsi esclusivamente di insalate e cibi macrobiotici. (“In pratica sono diventato come Padre Pio” “Santo?” “No, morto”).

Adesso la situazione sembra veramente insostenibile. Tutti hanno la faccia sconvolta, gridano come degli ossessi e stanno lanciando quel bastone con tutta l’energia che hanno in corpo.

Mino, finita la canna, se ne ritorna in bagno a gambe levate. Lo sentiamo mentre si lamenta attraverso la porta. A quanto pare, l’effetto del lassativo non è ancora del tutto passato.“Vabbè” dico a Piero “e la maschera a cosa ti serve?” “A evitare il passivo” mi risponde. “Aaah” dico io. “Eh già” mi risponde lui. Poi mi guarda attraverso quell’aggeggio che lo rende irriconoscibile e mi chiede: “E tu, come ti sei fatto quell’occhio nero?”

Scena 012

A differenza dei primi mesi, concluse le vacanze di Natale, la classe di sceneggiatura si ritrova impegnata in numerose lezioni. Oltre a quelle con il premio Oscar (per scrivere un soggetto d’autore), ci sono quelle con il film-maker (per scrivere una sceneggiatura low budget), quelle con l’esperto di serie tv (per scrivere una puntata utilizzando i personaggi di una famosa fiction a scelta) e quelle con un attore teatrale (per avere più familiarità con le battute che scriviamo). Dato che fin da settembre la classe era abbastanza svogliata e spesso scriveva meno della metà dei lavori commissionati, dopo questo surplus post-natalizio ognuno ha cercato di sfangarla come poteva. Uno ha abbandonato il corso ed è ritornato alla sua precedente occupazione (faceva il meccanico), altri hanno deciso di frequentare non più della metà delle lezioni (su tutte quelle del premio Oscar perché ormai lo conoscono e quelle dell’esperto di fiction perché ha scritto la loro serie preferita), i rimanenti all’inizio si sono detti entusiasti perché finalmente potevano dar prova della loro buona volontà e del loro eclettismo, ma dopo una settimana si sono arresi di fronte all’enorme mole di lavoro e, per non sfigurare con i docenti, hanno deciso di scrivere per tutti la medesima storia. Questa:

Versione film d’autore.

Mirella è una psicologa molto affermata, ha un marito dirigente d’azienda (oppure avvocato) che l’ama come se fosse il primo giorno e una figlia meravigliosa che scrive bellissimi temi. Sia Mirella che il marito sono appassionatissimi di letteratura, tant’è che leggono i libri più astrusi nei luoghi più disparati. (La “Critica della ragion pura” al cesso, “l’Emilio o dell’educazione” prima di andare a dormire, “I colloqui” di Gozzano in metro, mezzo che prendono perché, pur essendo ricchi, sono anche democratici). Ma un giorno Chiara, una paziente di Mirella affetta da depressione, muore suicida. Mirella si sente in colpa perché capisce solo ora che la sua paziente (oramai ex-paziente) le aveva lanciato, inascoltata, decine di messaggi d’aiuto che lei, inconsapevolmente, aveva preso sottogamba. A cause di quell’episodio la vita di Mirella cambia: è sempre nervosa, irritabile, scontrosa. Non riesce più a lavorare e anche la sua vita privata è un disastro, prova ne è il fatto che un giorno, quando la figlia Anna vuole a tutti i costi leggerle un tema in cui ha preso un ottimo voto, lei le risponde urlando e le molla un sonoro schiaffone. Anna scappa via piangendo e Mirella capisce che è arrivata sull’orlo dell’esaurimento nervoso. Decide così di mollare armi e bagagli e si prende un momento di pausa dalla sua vita: lascia l’appartamento di centoventi metri quadri in centro città situato nelle vicinanze di un bellissimo parco e se ne va in campagna. Il luogo in cui si rifugia è l’enorme villa in cui abita il padre, un ex dirigente d’azienda (oppure avvocato) che vive da solo ridotto su una sedia a rotelle per una imprecisata malattia dall’impronunciabile nome tedesco. L’uomo ha un brutto rapporto con Mirella (i suoi continui tradimenti sono stati la causa del suicidio della moglie, ma questo si scoprirà solo alla fine, nonostante i numerosi indizi sparsi qua e là durante la narrazione) e non riesce a trovare una badante che lo accudisca perché ha un caratteraccio. Mirella allora decide di caricarsi sulle spalle l’ingrato compito e si sistema in casa per dare una mano. All’inizio è un po’ a disagio (in città aveva una cameriera) ma poi, piano piano ingrana alla grande. Finalmente recupera il rapporto col padre e ritrova anche fiducia nel proprio lavoro, dal momento che, nei momenti di libertà, aiuta un ragazzino di nome Stefano (età 10/11 anni) a superare i piccoli problemi legati alla sua età, ovvero conquistare la ragazzina dei proprio sogni e affrontare una banda di bulletti. Prima che il film si concluda, il padre di Mirella confesserà alla figlia che la madre non è scappata come lei credeva, ma è morta suicida. Mirella all’inizio andrà in collera e abbandonerà il padre al proprio destino. Poi però, grazie all’intervento del marito e della figlia (nel frattempo giunti dalla grande città), Mirella riuscirà a perdonarlo appena prima che lui muoia. Il film si conclude con Anna (la figlia quattordicenne di Mirella) che aiuta Stefano (il ragazzino aiutato da Mirella) a prendere un bel voto in un tema d’italiano.

Versione low budget.

Mirella è una studentessa universitaria di psicologia, ha venticinque anni e vive con Chiara, una sua coetanea un po’ depressa. Mirella ha anche un fidanzato, un chitarrista di una band punk-rock che litiga spesso con il padre che lo vorrebbe iscritto a legge (oppure a economia e commercio) e una sorellina minore, Anna, quindicenne dagli occhi vispi che fa dei bellissimi temi d’italiano. Ma un giorno accade il fattaccio: Chiara si suicida. Mirella è distrutta perchè si sente in colpa per aver preso sottogamba i numerosi avvertimenti che l’amica le ha dato prima di compiere l’estremo gesto e sente il bisogno di cambiare aria. All’inizio è indecisa (l’indecisione è uno dei tratti caratteriali più importanti di Mirella) ma, dopo aver litigato con il fidanzato che continuava a lamentarsi di come la sua famiglia tentasse in tutti i modi di ostacolargli la carriera, finalmente si decide. Prende il treno e dopo aver incontrato, nell’ordine, un nazi-skin romantico, un punkabbestia razzista e un ragazzo con la faccia da nerd che legge il Riformista, arriva nel paesello dove abita il padre, un operaio in pensione affetto da cancro ai polmoni causato delle scarse misure d’igiene che c’erano nella fabbrica dove lavorava. Il padre avrebbe bisogno di una badante, ma con le sue sparute risorse economiche, non può permetterselo. Mirella allora decide di rimboccarsi le maniche e si mette al servizio dell’anziano genitore, nonostante il loro rapporto non sia dei migliori. Per calmare il dolore provocato dalla malattia, Mirella convince il padre a fumare il cilum. Alla fine del film, sul letto di morte, il padre confesserà a Mirella che la madre non è morta suicida (come le aveva detto anni prima) ma è scappata per i suoi continui tradimenti. Mirella allora, indecisa se gioire perché sua madre è ancora viva oppure arrabbiarsi per quella terribile bugia paterna, nel frattempo perdona il padre che subito dopo muore. Dopo aver superato questo nuovo lutto, scova la madre e apre assieme a lei un consultorio per ragazze depresse. Per la serata di inaugurazione,  si esibisce il gruppo del fidanzato di Mirella, che dopo quel concerto appenderà la chitarra al chiodo e seguirà la volontà paterna, iscrivendosi a legge (oppure a economia e commercio).

Versione serie Tv

Questa versione dipende dai gusti personali. Se l’autore è un fan del dottor House, il padre di Mirella è un paziente dell’ospedale e il dottor House capisce che l’unico modo per salvarlo consiste nel cercare Mirella in modo che padre e figlia abbiano un confronto liberatorio. Se invece è un fan dei polizieschi, il suicidio viene confuso con un omicidio e Mirella (una giovane poliziotta) riuscirà a scoprire la verità, smentendo il padre, anziano commissario dai modi spicci, e scagiona il ragazzo inizialmente accusato del delitto, con cui poi si fidanzerà. Alla ragazzina brava nei temi viene affidata la linea comica (farà la nipote di Paolo Villaggio). Se questo racconto è invece il frutto di un appassionato di telefilm sanguinolenti alla Six Feet Under oppure alla Dexter, la protagonista è la ragazza suicida.

Intervallo 3

“Aspetta un attimo” lo interruppe l’ispettore Williamson “non vorrai mica dirmi che tu sei andato fino al ponte di Brooklin e hai combinato quel casino per…”

“Si” ammise di nuova senza balbettare Mark “per finire in televisione”

“Pazzesco” commentò l’ispettore “hai rischiato di provocare un tamponamento e ti prenderai sicuramente una denuncia per atti osceni in luogo pubblico e chissà cos’altro per…”

“Per finire in televisione e farla innamorare, signore. Secondo lei sarò già nei notiziari del mattino?”

L’ispettore Williamson fece uscire Mark dall’ingresso principale, poi se andò in un bar a bere l’ennesimo caffé di quella giornata ormai diventata notte, cercando di dimenticare quella storia pazzesca. Aveva quasi pensato di ritornare in centro per vedere se era possibile dare una mano, ma l’ennesimo sbadiglio lo fece desistere. Ritornò a casa. Sua moglie e i suoi figli erano tutti in piedi davanti ad una edizione speciale del tg. Solo il piccolo Richard non erà lì. Probabilmente Mara lo aveva costretto ad andare a dormire. La televisione stava intervistando un vigile del fuoco con la faccia sporca di cenere che spiegava quali erano le possibilità di trovare ancora qualcuno vivo sotto le macerie. L’ispettore Williamson andò a letto, e sotto le coperte penso ancora alla storia di Mark Forrest. Nella sua pazzia, il suo piano avrebbe potuto anche funzionare. L’ispettore Williamson non credeva che quella ragazza, quella Iris, si sarebbe innamorata di lui se fosse apparso in televisione, ma sicuramente un pazzo in bicicletta che si spoglia sul ponte di Brooklin serebbe stata la notizia con cui tutti media sarebbero andati a nozze. Ma non quel giorno. Quel giorno, l’undici settembre del 2001, c’era stato il più grande attentato che l’America aveva subito da quando esisteva come nazione, e tutti i media, non solo americani, ma del mondo intero, non avrebbero fatto altro che parlarne per settimane e settimane, se non mesi e anni. Quel giorno nessuno aveva badato ad un ragazzo che camminava completamente nudo su un ponte. L’ispettore Williamson, distrutto da una delle più intense giornate di lavoro della sua carriera, si addormentò come un bambino.

Fine

Intervallo 2

Mark Forrest non era un ragazzo normale. Orfano di padre, aveva sempre vissuto con una madre che i servizi sociali non esitavano a catalogare tra i soggetti a rischio. Un passato da alcolista e un presente di lavori saltuari come donna delle pulizie non erano comunque sembrati un motivo sufficientemente valido per toglierle l’affidamento di quell’unico figlio. E in effetti la madre di Mark voleva un bene dell’anima a quel bambino lentigginoso dagli ispidi capelli rossi. Talmente bene da volerlo tenere tutto per se. Così Mark, circondato, anzi assediato dall’affetto di quella mamma fin troppo protettiva, era cresciuto fragile e insicuro. A scuola non riuscì mai a legare con nessuno e fu sempre seguito da un’insegnante di sostegno che lo aiutava malvolentieri a svolgere i pochi compiti che gli venivano assegnati. Una volta esentato dall’obbligo dell’istruzione trovò lavoro come custode notturno di una fabbrica di concimi lungo le rive a nord dell’Hudson. Introverso e non troppo sveglio, quel lavoro era perfetto per uno come lui. Passava le notti chiuso in un gabbiotto cercando di tenere una veglia più o meno vigile accasciato su una vecchia poltrona sfondata. Tanto a fare la guardia al capannone ci pensavano Smith e Wesson, i due rottwailer del signor Hodgson, il padrone dell’azienda. Il compito di Mark si limitava a dover chiamare la polizia nel caso i due cani avessero cominciato ad abbaiare, segno che c’era qualcosa che non andava. Ma questo non era mai successo. Non c’era molto da rubare in una fabbrica di mangimi e l’unica cosa che i due cani avevano addentato era stato il suo fondoschiena quando una volta aveva deciso di avventurarsi in un giro di ricognizione. Da allora non aveva più osato mettere piede fuori dalla porta fino a che il signor Hodgson, alle otto del mattino, non veniva a rinchiudere i due mastini. In effetti la vita fino ad allora non aveva offerto molto a Mark Forrest, ne lui aveva mai chiesto molto alla vita. Ma un giorno, anzi per essere più precisi una mattina, accadde qualcosa che ruppe la monotonia della sua solitaria esistenza. La sera prima la madre di Mark, forse per qualche bicchiere di troppo, era collassata sul divano russando come una locomotiva a vapore e si era dimenticata di preparare la cena. Mark non se la sentì di cucinare, dato che l’ultima volta che aveva tentato di scaldare del latte aveva fuso la tazza mettendola direttamente sulla fiamma del fornello, e cercò del cibo scovando solo del brodo solubile scaduto e del formaggio talmente rancido che non sarebbe stato commestibile nemmeno per un topo di fogna con la scabbia. Pensò quindi di comperare qualcosa per strada, ma resosi conto che si era fatto tardi, corse direttamente alla lavoro, ormai rassegnato a passare la notte con lo stomaco vuoto. Ad un certo punto pensò addirittura di cercare qualche scatoletta di Smith e Wesson, ma i latrati per nulla amichevoli dei due mastini lo avevano convinto a desistere. Aspettò così la fine del suo turno e una volta che i due cerberi erano stati affidati alla catena e rinchiusi nelle loro gabbie si precipitò alla ricerca disperata di un bar in cui poter finalmente riuscire a mettere qualcosa sotto i denti. Entrò al Roadhouse café, locale frequentato prevalentemente da camionisti e operai, e qui la vide per la prima volta. Iris faceva la barista ed era una piccolina mora e scura, con la bocca carnosa e i jeans bassi che quando si girava facevano intravedere un filo di culo.

Mark se ne innamorò all’istante.

E tutto questo perché Iris fece una cosa che nessuna altra donna gli aveva mai fatto in vita sua.

Gli aveva sorriso.

Grazie a quel sorriso Mark ordinò un litro di succo d’arancia e tutti i panini disponibili sul listino, anche se la fame gli era completamente passata. E dopo quell’abbondante colazione cominciò a frequentare quel bar ogni mattina, pomeriggio e sera e da allora tutto gli sembrava più bello, il suo lavoro meno noioso, sua madre meno asfissiante, la sua vita meno vuota e persino Smith e Wesson gli sembravano meno stronzi. Mark era cotto come una pera, e continuava a pensare alla sua dolce barista, dedicandole soavi pensieri e masturbandosi ferocemente. Ma dopo un po’ decise che questo non gli bastava più e doveva far qualcosa per conquistarla, così stazionò ancor di più al roadhouse café cercando di capire in quale modo potesse far breccia nel suo cuore. E dopo un po’, finalmente capì. C’era sempre qualcosa che Iris faceva quando lui andava a trovarla, ed era sempre la stessa cosa. Il roadhouse café era un locale il cui bancone era disposto per il lungo, con pochi tavoli in radica e un pavimento di linoleum quasi mai pulito. E sulla parete troneggiava un enorme televisore perennemente acceso. Ogni volta che lui era entrato nel locale, Iris lo stava guardando. Telenovelas, fiction, reality show, notiziari, giochi a premi, qualunque cosa trasmettesse quell’enorme rettangolo nero, Iris la stava seguendo con passione e con uno sguardo che Mark avrebbe voluto che dedicasse a lui. Ma Iris non si limitava a guardare la televisione, quello che avveniva là dentro era anche al centro dei suoi discorsi, e l’unica volta che loro due aveva scambiato qualche battuta, era stato quando aveva commentato le immagini di un servizio dedicato ai cani da guardia.

“Ma quelli sono Smith e Wesson” esclamò Mark.

“No” aveva risposto Iris “sono dei Rottwailer”.

E così Mark aveva capito cosa fare per conquistare il cuore di Iris.

Intervallo

La scuola di cinema riaprirà i battenti lunedì prossimo. In attesa di scoprire cosa succederà nelle prossime puntate, chi vuole può intrattenersi con il racconto protagonista della scena 003, quella del docente tabagista che ci aveva commissionato una storia breve – anzi, brevissima- in cui ci fossero questi tre elementi: un ponte, un uomo nudo, e Brooklyn sullo sfondo. Il racconto è in tre parti. Questa è la prima. Buona lettura.

Tanta fatica per niente

Mark indossava i pantaloni di una vecchia tuta il cui legittimo proprietario doveva essere un uomo di almeno sei taglie più grosse della sua, un’altrettanto vecchia maglietta arancione scolorita e, unica difesa contro il gelo di quella stanza, una pesante coperta infeltrita che gli faceva prudere terribilmente le braccia. Ma date le circostanze, non poteva certo pretendere che gli portassero delle piume d’oca e un completo in kashmir. Impossibile dire che fine avessero fatto i suoi vestiti, difficilmente però qualcuno si era preso la briga di recuperarglieli. Lui sicuramente non lo aveva fatto. Non hai molta libertà d’azione quando dei poliziotti isterici e incazzati ti prendono per la collottola e ti trascinano via bloccandoti gambe e braccia. Anzi, era già tanto che dopo averlo caricato sul cellulare, si fossero limitati a dargli del povero stronzo e della gran testa di cazzo. Da quel punto di vista, la cosa gli era andata fin troppo bene, anche se Mark temeva che il bello dovesse ancora venire. Un poliziotto in completo spiegazzato entrò nella stanza. Doveva avere pressapoco cinquant’anni, una barba ispida, un’espressione stanca e un volto butterato sotto i radi capelli sale e pepe tirati indietro con la brillantina. Su quel viso l’acne giovanile aveva fatto gli stessi danni che poteva provocare una bomba a mano in un negozio di cristalli. L’unica esperienza di Mark in fatto di interrogatori si limitavano alle serie trasmesse in tv, e lì di solito c’erano un poliziotto buono e uno cattivo. Mark non sapeva ancora a quale specie apparteneva l’uomo che aveva di fronte, ma forse questo non era ne l’uno ne l’altro. Probabilmente questo era solo quello brutto. Il poliziotto gli si sedette di fronte appoggiando sul tavolo una penna e un block-notes. Per lui, come per tutte le forze di polizia della città, quel giorno era stato un vero e proprio inferno. Il casino scoppiato in centro era stato tale che per un po’ si erano dimenticati di quello strambo ragazzo chiuso nella stanza degli interrogatori, ne tantomeno avevano avuto il tempo di controllarne l’identità. Ma l’intuito costruito in anni di esperienza gli suggeriva che non doveva essere un tipo pericoloso, anche se non sembrava avere tutte le rotelle a posto. Non solo per quello che aveva combinato, ma anche per come si era comportato dopo. Di solito tutti quelli che per un motivo e per l’altro venivano portati in centrale non facevano altro che piantar casini. C’era chi si appellava ad almeno tre o quattro emendamenti, chi voleva chiamare il suo avvocato, chi si metteva a piangere e chi continuava ad urlare e a strepitare. Invece lui non aveva fatto altro che starsene seduto per ore senza muovere un muscolo.

“Allora ragazzo, come ti chiami?” esordì l’ispettore Williamson.

“M-m-mark, s-s-s-signore.” rispose Mark, tartagliando come il motore di un trattore a corto di gasolio.

“Immagino che signore non sia il cognome.” tentò di scherzare l’ispettore. Le possibilità che fosse un soggetto pericoloso diminuivano sempre di più.

“N-n-no, s-s-s-signore. Il mio co-co-cognome è F-f-forrest”

L’ispettore Williamson comprese che avrebbe dovuto sforzarsi non poco per metterlo a proprio agio. In realtà non è che gli importasse molto di quel ragazzo, ma era stanco, molto stanco. E non vedeva l’ora di andarsene a casa per mettersi sotto le coperte. Però prima doveva risolvere quella grana.

“Mark, cerca di calmarti” disse tentando senza troppa fortuna un sorriso amichevole “adesso faccio portare due caffè, così ce li beviamo mentre scambiamo quattro chiacchiere, ti va?”

“G-g-grazie signore, ma io non beve c-c-caffè, la m-m-mamma dice che mi agita”

“Mmm” mugugnò l’ispettore Williamson, incuriosito dal fatto che un uomo di almeno venticinque anni si preoccupasse ancora del giudizio materno “allora un the può andare? O ti agita anche quello?” l’ispettore sperò che Mark non avesse colto il suo tono canzonatorio.

“Il t-t-the mi p-p-piace, signore. Col l-l-limone.”

“Vedrò quello che posso fare” sentenziò l’ispettore.

Il the e il caffè arrivarono in due minuti. L’ispettore Williamson pensò che se quel ragazzo non fosse riuscito a distendere i nervi, le ore disponibili in una giornata non gli sarebbero bastate. Avrebbe fatto in tempo a uscire dalla centrale, salire su una volante, fare il giro dell’isolato, comprare un pacchetto di sigarette, fumarsele tutte e probabilmente Mark, al suo ritorno, sarebbe stato ancora lì a cercare di finire la frase. Il caffè faceva schifo, e nemmeno il the sembrava essere dei migliori.

“Allora, com’è il tuo the, Mark?”

“B-b-buono, signore, e il suo c-c-caffè?”

“Ottimo, Mark” mentì l’ispettore. “Senti, ma perché non la finisci di chiamarmi signore? Chiamami Bob.”

“Va b-bene sign.. cioè, B-b-bob.”

“Ecco, bravo. E adesso che siamo diventati amici, mi spieghi cosa pensavi di combinare oggi sul quel ponte?” l’ispettore sperò che la risposta di Mark fosse abbastanza convincente da poterlo rimandare a casa senza troppi problemi. Quel ragazzo cominciava a fargli un po’ pena. E lui era sempre più stanco.

“S-s-si, s-s-signore, cioè B-b-bob, l-l-l’ho f-f-fatto p-p-per…”

“Andiamo, Mark!” sbottò l’ispettore Williamson, cioè Bob, alzando la voce di qualche tono e dando una manata sul tavolo “cerchiamo di non passare qui tutta la notte!” L’ impazienza dell’ispettore, dettata dalla voglia di andarsene a casa, aveva vinto sui suoi buoni propositi di rimanere calmo.

“S-s-si, s-s-signore”.

L’ispettore Williamson capì che andando avanti in quel modo quell’interrogatorio sarebbe durato giorni. Così decise di andare direttamente al punto.

“Mark” gli disse appoggiando i gomiti sul tavolo e giungendo le mani a mo’ di preghiera “adesso voglio che ti rilassi e mi spieghi per bene per quale motivo oggi, alle otto e mezza del mattino, sei andato in bicicletta fino al ponte di Brooklin e ti sei spogliato rimanendo nudo come un verme finché non siamo venuti a prenderti. Dimmi la verità, eri ubriaco? O drogato?”

Mark indietreggiò dondolandosi sulla la sedia e guardando l’ispettore di sbieco mentre le sue guance diventavano dello stesso colore del ketchup. Poi finalmente rispose “No, s-s-signore, cioè, B-b-bob” Mark fece una breve pausa, poi riprese. E per la prima volta da quando era lì senza balbettare “Non era ubriaco, signore. L’ho fatto per amore.”

L’ispettore Williamson reclinò la testa e si sbatté una mano sulla fronte. Mark non lo sentì, ma dalla sua bocca uscì un’unica parola.

“Merda” disse l’ispettore. Quell’interrogatorio non sarebbe finito tanto presto.

Scena 011

Molti racconti degli studenti del corso di sceneggiatura hanno per protagonista un uomo che parla come l’eroe di un film d’azione americano perennemente travolto da una cocente rabbia e caratterizzato da un’estrema volgarità. “Mi sveglio una fottuta mattina del cazzo e mi viene la stramaledettissima idea di iscrivermi in una fottuta scuola di sceneggiatura. Non ero cosi coglione da pensare che lì mi avrebbero insegnato il fottutissimo talento, perché quello o ce l’hai o non ce l’hai, ma almeno speravo che quei fottuti rottinculo di insegnanti dimmerda fossero in grado di darmi qualche dritta, di migliorare le mie storie, di dirmi dove cazzo sbattere la fottuta testa. Contatti, fottutissimi contatti. È per quello che ho prosciugato il cazzutissimo conto in banca. E invece non gliene frega un cazzo a nessuno. Vengono a scaldare la fottutissima sedia e non ti spiegano un fottutissimo niente di niente. Ti fanno solo vedere dei cazzutissimi film. E come fare lezione con una merdosissima bambola gonfiabile che al posto di prendersi un cazzo in bocca non fa altro che caricare fottutissimi dvd nel fottutissimo lettore di merda. Tanto valeva cercar lavoro in un fottutissimo negozio che affittava strafottutissimi film del cazzo. Almeno lì mi pagavano, cazzo.” Ma questa è una prerogativa degli studenti maschi. Invece i personaggi delle aspiranti sceneggiatrici sono principalmente delle donne estremamente introverse narrate in terza persona il cui travaglio interiore è affidato a piccoli gesti dal profondo significato emotivo. Molto spesso, per aumentare l’effetto straniante, il nome delle protagoniste è in evidente contrasto con il loro modo di essere. “Serena è seduta in un angolo della sua stanza. Gli occhi persi nel vuoto, le mani a reggere la testa, una maglietta a coprire la sua nuda scheletricità. Nella stanza fa freddo, ma Serena non lo sente. È delusa. Sono passate solo poche settimane dalla sua iscrizione al corso di sceneggiatura e l’angoscia e il senso di smarrimento da quel giorno non l’hanno più abbandonata. Qualcuno sta giocando con i suoi sogni e glieli sta portando via. Serena si volta verso un comodino e tira fuori qualche foglio. Sono le sue storie. Le sue piccole grandi storie su cui ha passato decine di notti insonni a scrivere e a riscrivere, mescolando inchiostro e lacrime, sudore e passione. Serena accarezza quei fogli. Prende un accendino. Li brucia. I suoi occhi guardano quel mucchio di carta ormai in fumo. Come i suoi sogni”. Il vero problema di queste storie non è naturalmente nello stile, che è personale e non va giudicato, ma piuttosto nell’errore tecnico di non affrontare mai l’arco di trasformazione del personaggio. Infatti tutti questi protagonisti rimangono uguali a sé stessi in tutta la vicenda, non cambiando di una virgola nemmeno nel loro umore. Perciò, se uno di questi aspiranti sceneggiatori dovesse andare avanti con la storia, probabilmente scriverebbe così. “In Italia il fottutissimo mondo del cinema del cazzo è un mondo di merda, dove la torta da spartire è troppo piccola per tutti gli stronzi che vogliono papparsela. Così non c’è un fottuto cazzo da fare. Nessuno ti darà lo straccio di una fottuta possibilità nemmeno se gli punti una fottuta pistola in mezzo ai fottuti occhi. L’unico modo per emergere è farsi amico qualcuno con i fottuti contatti giusti. Ma serve un dannato colpo di fortuna. Serve cogliere il fottutissimo attimo. E a me cosa succede? Non appena incontro un fottuto figlio di un cazzo di regista di merdose fiction paraculo di merda che prende sul serio un mio fottuto progetto, scopro che lo stronzo è in paranoia dura per una troia del cazzo che l’ha mollato per colpa mia. Roba che se lo stronzo lo viene a sapere posso dire addio al fottuto e dannato e merdoso e maledetto mondo del cinema del cazzo.” Mentre un’aspirante sceneggiatrice opterebbe per questa soluzione. “Serena era distesa sul letto. Gli occhi persi nel vuoto. In quei giorni aveva trovato un nuovo amore, un ragazzo dolce e gentile che finalmente era riuscito riempire il vuoto che lei sentiva dentro, ed era anche diventata amica di Giulia, la figlia di un’importante regista, autrice di numerosi film dedicati a figure femminili forti quanto coraggiose, tra cui “ClitoriDea”, la storia di una ragazza estremamente affascinante in grado di ammaliare tutti gli uomini che la circondano, e “Romanzo Passionale” storia di una banda armata della Roma anni ’70 composta da sole donne. Con quel ragazzo che l’amava e quell’amica che avrebbe potuto aiutarla nei suoi sogni, Serena sarebbe finalmente riuscita a raggiungere quel po’ di felicità che le spettava. Ma il giorno prima, mentre era ospite a casa di Giulia, capitò qualcosa che avrebbe cambiato tutto il corso degli eventi. Sentì provenire dal bagno un rumore sordo e un verso angosciante, simile ad un animale in gabbia. Serena corse e trovò l’amica stesa a terra. Aveva appena ricevuto un messaggio in cui il suo ragazzo le annunciava che aveva intenzione di porre fine al loro rapporto, e lo shock era stato troppo forte. Serena portò Giulia in cucina e le preparò una tazza di camomilla. Giulia in lacrime le mostrò una foto di Marco. Serena inorridì. Marco era il ragazzo di cui lei si stava follemente innamorando. Serena scappò da casa di Giulia, inseguita dalla sue domande e dal rimorso. Una volta arrivata a casa, si stese sul letto. Non si sarebbe voluta alzare mai più”

Scena 010

Mercoledì sera. Torno a casa dopo una giornata di lezione. Dovevamo portare ad un docente alcuni pitch, ovvero dei soggetti per un ipotetico film riassunti in due o tre righe. Nessuno degli studenti ha scritto nulla, ma tutti hanno narrato a voce le loro idee parlando ognuno non meno di venti minuti. Le storie, come al solito, si potevano racchiudere in due diversi gruppi. Da una parte vicende ultra violente con protagoniste dolci vecchine che si trasformano in serial killer oppure placidi macellai che lavorano per la mafia, dall’altra resoconti familiari di padri e madri che litigano sotto gli occhi di bambini indifesi che rimarranno segnati tutta la vita a causa di quegli episodi. Una volta aperta la porta di casa vengo investito dall’ormai familiare odore di tabacco misto ad hascisc e trovo Mino e Piero seduti in cucina con un loro amico a me sconosciuto. Questo ragazzo sembra avere l’aria particolarmente affranta. Dopo un breve e confuso resoconto capisco è stato mollato dalla sua ragazza circa una settimana fa e lei lo ha appena minacciato di denunciarlo per stalking se dovesse farsi risentire un’altra volta. Questo perché il ragazzo l’ha chiamata migliaia di volte, sia di giorno che di notte, mescolando messaggi di folle amore con minacce di ritorsione. Anche adesso il ragazzo appare abbastanza scosso, e non sa se essere contento per essersi liberato di una grandissima stronza oppure triste perché ha perso l’amore della sua vita. Mi fa un po’ pena perciò cerco di rincuorarlo dicendo le solite cose che si dicono in questi casi, cioè che è solo l’inizio di una nuova vita, che deve farsene una ragione, che piuttosto di assillarla è meglio troncare tutti i rapporti facendole pesare la sua assenza, che morto un papa se ne fa un altro etc etc etc. Il ragazzo sembra fregarsene e alla fine parliamo d’altro. Dopo una mezz’oretta scopro che è il figlio di un regista abbastanza noto nell’ambiente delle fiction e anche lui vuole intraprendere lo stesso lavoro. Mi spiega che è venuto a sapere dell’esistenza di un concorso indetto da una nota marca di caffè dal titolo “Coffee, a moment of pleasure”. Lui vorrebbe partecipare, ma in questo periodo non riesce ad avere idee. Anch’io sapevo di quel concorso e a tempo perso avevo scritto una breve sceneggiatura. Era la storia di una donna-manager che tornava a casa guidando un auto di lusso e trovava il marito a letto con un’altra donna. Invece di arrabbiarsi e urlare, la donna bruciava i vestiti dei due fedifraghi nel camino e, dopo averli sbattuti sulla terrazza al freddo, se ne andava in cucina a gustarsi una tazza di caffè. All’aspirante regista l’idea sembra piacere molto. Io gli spiego che purtroppo è inattuabile perché servono un sacco di mezzi. Una bella macchina, un seminterrato dove poter fare le riprese del parcheggio, un ascensore di una palazzina di lusso, un appartamento borghese grande e spazioso provvisto di camino, un terrazzo con vista su una bella zona e una cucina elegante. L’aspirante regista mi dice che tutto questo non rappresenta alcun problema. Estrae dalla tasca un Iphone con una movenza alla Clint Eastwood e fa un paio di telefonate. In breve troviamo una Mercedes cabrio, un appartamento in centro, gli attori e tutta la troupe, compreso il direttore della fotografia e lo scenografo. Concluso il giro di telefonate, l’aspirante regista riprova nuovamente a chiamare la sua ex, ma lei non gli risponde, anzi alla terza chiamata stacca il cellulare. L’aspirante regista scoppia a piangere e dice che non la capisce più, e ci rivela che quando è stato mollato lei gli ha rivelato che era finita a letto con un’altro ed era stato proprio quell’episodio a farle capire che la loro storia era arrivata ad un punto morto. Dopo un’altra oretta di pianti, lacrime e minacce sanguinarie dettate da una fervente gelosia causata dallo sconosciuto amante dell’ex, l’aspirante regista se ne va e mi annuncia che finite le vacanze mi chiamerà per lavorare assieme al corto. Mentre ci scambiamo i numeri ci accorgiamo che non ci siamo ancora presentati. “Molto piacere” dice l’aspirante regista mentre mi stringe la mano “io mi chiamo Alberto”.

Scena 009

Lunedì mattina. Ultimi giorni di lezione prima delle vacanze. Mi alzo e mi guardo allo specchio. Gli occhiali tenuti assieme con lo scotch mi danno un aria da nerd protagonista di tanti film americani. Avrei dovuto farli riparare almeno un paio di settimane fa, ma tra una cosa e l’altra ho sempre rimandato. Andrò oggi pomeriggio. Salterò una lezione, ma tanto è inutile andarci in quelle condizioni. Lo scotch ormai non tiene più e senza occhiali ci vedo talmente poco che non riuscirei a distinguere De Sica padre da De Sica figlio, anche se la differenza salterebbe agli occhi pure a Ray Charles. Leggo, mangio, guardo un paio di telegiornali e finalmente si fanno le tre. Vado in strada ed entro nel primo ottico che mi capita davanti. Le montature esposte, la presenza di numerose commesse più che carine, la pettinatura della proprietaria che probabilmente costa più di un affitto di un monolocale in centro mi fanno capire che sono entrato in un negozio al di fuori della mia portata. Legato alla sedia c’è un cane bassotto. Si chiama Napoleone. Mi serve direttamente la proprietaria, una donna che non ammetterebbe mai e poi mai di avere quasi sessant’anni, e mi spiega che i miei occhiali sono impossibili da riparare. Tira fuori dai cassetti alcuni modelli. Il meno caro costa almeno tre o quattro sedute dal suo parrucchiere. Per pagarla dovrei aprire un mutuo, oppure spacciarmi per un acconciatore di top model sperando che lei mi creda e sia interessata al baratto. Invento una scusa. Le dico che ho bisogno di una montatura d’ emergenza perché a breve farò la visita dall’oculista e voglio aspettare prima di acquistare una montatura costosa. Lei prima mi sega le gambe palesandomi che la visita potrei farla anche lì seduta stante, poi mi salva spiegandomi che per quelle lenti non ha alcun modello adatto. Tiro un sospiro di sollievo. La proprietaria mi indica un altro negozio dove sicuramente potranno soddisfare le mie richieste, e sottolinea in maniera vagamente ambigua la parola “soddisfare”, e io non capisco se si tratta solo di una mia impressione, se sotto ci sia un ammiccamento erotico oppure semplicemente ha capito che sono un morto di fame. Comunque sia vado nell’altro negozio. Decisamente più piccolo e con una sola commessa abbastanza vecchia e brutta, il proprietario è un gioviale quasi cinquantenne che sta parlando con un suo amico, un signore con un appariscente cappello da cacciatore. Il proprietario discute di calcio, e quando nomina la Champions league pronuncia la parola league proprio come è scritta. Prima di me c’è una signora bionda che ha portato gli occhiali del marito. Mentre la serve, il proprietario fa uno scabrosissimo gioco di parole perché la signora ha testualmente detto “Mio marito mi dato un servizio da fare per lei”. La signora diventa rossa come un peperone, il proprietario si prodiga in occhiolioni verso il suo amico e verso di me, infine invita alla signora a farsi una sana risata perché la vita e tanto triste e bisogna pure divertirsi ogni tanto. La signora non sembra riprendersi, allora il proprietario, per metterla a suo agio, le da una sonora manata sulle spalle e la scuote vigorosamente. La signora ride. Il proprietario ride. La commessa ride. Anche il signore col cappello ride. Io no, ma per non sembrare antipatico comincio a ridere anch’io, solo che lo faccio nel preciso momento in cui tutti smettono. La signora esce. Finalmente arriva il mio turno. Il proprietario, senza che io dica più di sette parole, ha già capito tutto. Mi mostra una montatura abbastanza economica e in men che non si dica mi ha già montato le lenti, mi ha offerto un caffé, mi ha chiesto che aria si respira al nord e mi ha narrato di un suo antico viaggio nella mia città, ai tempi in cui la maledetta trilogia lavoro/famiglia/impegni non gli impedivano ancora di seguire ogni trasferta della sua squadra del cuore. Pago ed esco. Mentre sto per lasciare il negozio, entra la proprietario del primo ottico. I due proprietari sono fratello e sorella. La proprietario del primo negozio mi guarda e mi chiede se va tutto bene. Forse è nuovamente solo una mia impressione, ma mentre mi parla si sta passando la lingua sulle labbra.

Scena 008

Di nuovo a lezione. A pranzo ho mangiato delle cotolette di pesce surgelate prese in offerta al discount. Il sapore non era male, ma il prezzo era veramente troppo economico per non temere di subire ritorsioni. Così adesso ho delle fitte allo stomaco talmente forti che mi costringono a piegarmi sulla sedia e a tenermi la pancia con le mani. Ma, considerato quello che pago, non voglio perdermi nemmeno un secondo di lezione. Per fortuna il premio oscar non fa nemmeno in tempo a mettere piede in aula che viene raggiunto da un’importante telefonata ed esce proferendosi in mille scuse. Io colgo l’attimo fuggente e me ne vado in bagno. Il cesso degli uomini è in fondo al corridoio. Un solo lavandino, l’aria calda per asciugarsi le mani fuori uso, sulla destra i due gabinetti divisi da una lastra di alluminio. Entro, mi abbasso i pantaloni dopo aver controllato che ci sia abbastanza cartaigienica e mi siedo. Dal gabinetto accanto sento forte e chiara la voce del premio oscar che parla al cellulare. Non sembra accorgersi della mia presenza, così riesco ad ascoltare parte della sua conversazione cercando di trattenere il mal di pancia. Sta parlando di una sceneggiatura che dovrebbe trarre da un libro giallo. Si discute di cifre. Il premio oscar spiega al suo interlocutore che dovrà lavorarci per almeno un paio di mesi e per una cifra inferiore a sei non legge nemmeno la quarta di copertina. Al suo interlocutore quel compenso sembra andare bene. All’inizio penso che stiano parlando di seimila euro e, tutto sommato, per due mesi di lavoro mi sembrano una paga abbastanza dignitosa. Poi però, quando già avevo cominciato a fantasticare su cosa farei io se guadagnassi tremila euro al mese per fare il lavoro che sogno da una vita, capisco che la cifra di cui stanno discutendo non è di seimila, ma di sessantamila. Riesco a malapena a soffocare un porcocàz di stupore mentre dal bagno del premio oscar si sente l’inconfondibilele scroscìo dovuto all’espletamentote delle sue funzioni fisiologiche. Oscar esce e io rimango in bagno, faccio quello che devo fare e poi esco anch’io. Vorrei andare giù alle macchinette per prendere un caffè, ma ho lasciato di proposito a casa il portafoglio per evitare spese inutili. Ritorno in aula. Oscar ci chiede se abbiamo portato i nostri esercizi, ovvero dei brevi racconti autobiografici dalla lunghezza massima di tre cartelle. Questo perché Oscar ha capito perfettamente che il novanta per cento dei soggetti letti finora altri non erano che vicende personali male occultate sotto la forma di ipotetiche storie per il cinema, così ha preferito giocare a carte scoperte dando a propri studenti un esercizio che li permettesse di liberarsi una volta per tutte di quell’irrefrenabile maelstrom di ricordi e memorie. Uno studente inizia a leggere, seguito a mano a mano dagli altri. Io ascolto attentamente e mi rendo conto che tutte le trame sono pressoché identiche. Parlano di un ragazzo/a che coltiva fin dall’infanzia il sogno di diventare scrittore perché da piccolo/a era rimasto particolarmente colpito/a da una nonna/zia/tata/governante/vicina di casa/signora anziana indefinita che gli narrava delle bellissime favole prima che si addormentasse. Ma per raggiungere tale sogno il ragazzo/a, oramai divenuto uomo/donna, ha dovuto andare contro l’autorità di un padre/padrone despota e autoritario che trattava male la moglie e pretendeva che il proprio figlia/a seguisse ad tutti i costi le proprie orme, ovvero diventare un commercialista/avvocato/ginecologo/dentista/imprenditore/industriale. Alla fine però, dopo un eclatante episodio in cui il/la protagonista minacciava un suicidio/fuga da casa/diventare gay/crisi nervosa/drogarsi/svelare rapporto extraconiugale paterno, il protagonista poteva finalmente realizzare il suo sogno e iscriversi in una scuola di scrittura creativa. Quando anche l’ultimo studente ha finito di leggere mi giro verso Oscar, e mi accorgo che è impegnato a sottolineare delle frasi di un libro giallo. Nella classe cala il silenzio. Dopo una ventina di secondi Oscar se ne accorge, alza gli occhi dal libro e ci dice che, tutto sommato, abbiamo lavorato bene. Io vado in bagno e, davanti allo specchio, comincio a prendermi a schiaffi.

Scena 007

Martedì mattina. Oggi niente lezione. Mi sveglio tra le otto e le nove e accendo la televisione tra l’una e mezza e le due. Vedo le facce esultanti dei parlamentari della maggioranza mentre si abbracciano tra di loro. Cambio canale. Calcio, gossip, telenovelas, un video di Lady Gaga, una televendita di pentole, Belen Rodriguez che non capisco se vuole farmi un pompino o vendermi un abbonamento telefonico. Ritorno al telegiornale. Le immagini della lotta urbana per le vie di Roma mi danno un illuminazione. Cerco il numero di qualche aspirante regista, e il primo che mi risponde è uno del ceppo talentuoso che però deve occuparsi di un corto. Mi spiega che è una sorta di discesa agli inferi che dovrebbe ricordare un po’ Dante, un po’ Milton, un po’ il film ‘300, un po’ i Monthy Phytoon un po’ Apocalypse Now e un po’ stocazzo mi verrebbe da rispondergli, ma lascio stare e gli auguro buon lavoro. Provo di nuovo con qualche regista metallaro, ma nessuno vuole perdersi la lezione di fotografia, anzi, uno sarebbe quasi tentato, ma non se la sente di abbandonare gli altri. Turandomi il naso provo con i registi impegnati. È vero che il più dotato non sa nemmeno fare un video con il cellulare, ma possiedono tutti delle videocamere costosissime e ipertecnologiche che quasi quasi un film te lo fanno da sole. Nessuno mi risponde. Guardo l’ora. Le due e un quarto. Probabilmente stanno ancora dormendo. La mia idea di fare un documentario sulla guerriglia urbana se ne va così allegramente a farsi fottere. Poi però penso che se voglio fare lo sceneggiatore, in fondo sono uno che vuole scrivere. E allora vaffanculo a tutti i registi di sto mondo, scendo in piazza e scrivo. Ma visto che ci sono, meglio portarsi dietro una macchina fotografica. Io non ne ho mai avuta una in vita mia, ma i miei coinquilini si. Entro in camera loro e, mentre ronfano ancora della grossa, trafugo una macchinetta digitale. Loro non si accorgono di nulla e continuano a russare. Che siano dei registi impegnati sotto mentite spoglie? Arrivo alla stazione Termini e sembra una giornata qualunque. Le vie verso il centro sono altrettanto tranquille e comincio a chiedermi se sia già finito tutto. Poi vedo un elicottero che si aggira sopra il cielo di Montecitorio e, dalle parti di via del Corso, sento il rumore di un esplosione. Cammino velocemente verso piazza del Popolo facendo un giro largo perché molte strade sono chiuse dalle camionette della polizia. Ad un certo punto sbuco in una piazzetta dove c’è un enorme tapiro dorato. Una scolaresca si sta facendo delle foto. Arrivo finalmente in piazza del Popolo e lo spettacolo è impressionante. Molte persone sono asserragliate nei bar. Poliziotti antisommossa corrono dappertutto. Scoppiano alcuni petardi. Per terra ci sono delle scarpe, delle sciarpe, dei giornali e dei fazzoletti sporchi di sangue. Ci sono delle buche da cui mancano numerosi sampietrini, probabilmente usati dai manifestanti. Trovo una tessera sanitaria accartocciata. È di una bambina di cinque anni. Più tardi la consegnerò a un carabiniere. Un edicola è stata presa d’assalto e tra le riviste sparse c’è addirittura un semaforo. Sento un’altra esplosione. Un furgoncino bianco e due macchine stanno bruciando. C’è un fortissimo odore di lacrimogeni. La polizia ha rinchiuso i manifestanti in un quadrato e li sta caricando. I manifestanti si oppongono lanciando di tutto. Un petardo scoppia in mezzo a un gruppetto di persone a pochi metri da me. I manifestanti riescono a disperdersi e vanno verso i giardini del Pincio. Prendono a calci un muretto e ne lanciano i mattoni verso i poliziotti che li guardano senza intervenire. A quanto pare l’ordine è di lasciarli sfogare. Un cassonetto brucia fino a liquefarsi. Dopo circa un paio d’ore scandite da lanci di pietre, petardi, bidoni della spazzatura ribaltati e bestemmie poliziesche, in piazza del Popolo alla fine rimangono solo i fotografi, i giornalisti seguiti dai loro operatori, i pompieri e il padrone incredulo di una macchina bruciata. C’è qualche passante dall’aria sconvolta e, impassibili, dei turisti che ridono. Piazza del Popolo piano piano si svuota. Ritorno verso la stazione. È incredibile come a pochi metri da quel disastro la situazione sembra normalissima. Uomini con la valigetta, donne eleganti che guardano le vetrine, fidanzatini mano nella mano, il solito traffico. Assieme ad un gruppetto di persone sto aspettando che il semaforo ci dia via libera per attraversare, ma una decina di Audi grigie munite di lampeggiante blu acceso ci sfrecciano davanti tagliandoci la strada. Mentre quella lunghissima processione di automobili sta passando, io guardo per terra. Mai che si trovi un sampietrino, quando serve.